S T I G M A
opere di Jessica Ferro
Testo critico di Giovanni Gardini
Talvolta accade che alcune parole, quasi per caso, iniziano a risuonare nella mente e lì trovano accogliente dimora. Fanno udire la loro eco, le loro mille sfumature, sino a che non diventano intimamente care e fedeli compagne di viaggio. Succede persino che ispirino un pensiero, indichino una direzione o, addirittura, suggeriscano un’opera d’arte. Per Jessica Ferro tutto questo è capitato con la parola «stigma», un termine potente e al tempo stesso delicato, dai molteplici significati, che porta in sé lo strazio della ferita, la consapevolezza della cicatrice e lo struggimento della memoria. «Stigma» è «marchio, macchia, punto», è parola acuminata che richiama il «pungere» e il «marcare». «Stigma» è un termine che si incontra in botanica, assume varie accezioni in zoologia determinando le caratteristiche di alcuni insetti, lo si ritrova in anatomia. Nell’uso letterale - così il vocabolario Treccani - ha un significato vicino a quello etimologico, mentre nella psicologia sociale rimanda all’attribuzione di qualità negative di una persona o di un gruppo. Questa parola, verrebbe da dire, ha lasciato il suo marchio nell’artista, al punto da sceglierla come cardine per il suo modus operandi e come titolo per la propria mostra.
Nella sua ricerca, da tempo, si lascia stupire dalle inesauste forme della natura accogliendole con sguardo attento e appassionato per trasformarle in marchi, in matrici preziose dal fascino antico. Attraverso la tecnica della xilografia si appropria dei segni del mondo naturale - siano essi quelli di insetti, di conchiglie o di piante - incidendoli sulle matrici e riproducendoli in modo sorprendentemente sempre nuovo su stoffe o su carte. Se il metodo della stampa, infatti, è azione seriale, per la Ferro esso si carica di una dimensione nuova che lascia spazio all’imprevedibile per realizzare lavori tutti diversi. Introducendo la possibilità dell’errore durante il processo di stampa - dove con il termine errore intende la libertà di trasgredire le regole e di accogliere l’imprevisto all’interno del suo gesto artistico - ogni volta si hanno immagini intenzionalmente differenti. La produzione di un’opera, infatti, se da un lato è azione minuziosa ed equilibrata - la realizzazione di una matrice richiede un’abilità che non ammette distrazioni di sorta dove il pieno e il vuoto vanno calibrati con chirurgico rigore - dall’altro si nutre di una attenta e ponderata casualità nella quale il colore, la pressione della matrice e il supporto stesso, siano essi la carta o la stoffa, introducono elementi di costante novità che orientano la sua ricerca verso una dimensione più legata all’arte pittorica che a quella incisoria.
Attraverso le sue creazioni assapora lo scorrere del tempo, innanzitutto quello dedicato alla realizzazione della matrice - da lei definito una sorta di rituale - e di tutti quei tempi ad esso successivi interessati dall’inesauribile processo di stampa. In questo delicato passaggio dalla matrice alla stampa l’artista interviene sulle forme segmentando e in qualche modo distruggendo i lembi dell’immagine in favore di una visione meno accademica e maggiormente espressiva. Attraverso questa frammentazione delle figure - non c’è lavoro, escluse le matrici, che non risenta di questo processo - rende tanto irriconoscibili quanto enigmatiche le forme, disorientando lo spettatore e invitandolo a soffermarsi su quegli aspetti che, nella realtà, mai avrebbe considerato.
In Stigma, Differenziazioni dell’essere, Metamorphosis, Insectum, tutto questo appare evidente. In queste serie la Ferro ingigantisce le forme degli insetti, siano essi un’ape, una cicala o una sfinge testa di morto, fino a trasfigurarli in un fitto intrico di segni. In questo costante esercizio di dilatazione e sezionatura delle immagini, alla pari di un entomologo, indaga l’essenza più profonda degli insetti per restituirne forme tanto inedite quanto inaspettate, ambigue, eccessivamente fuori scala, pure irriconoscibili, che chiedono il coinvolgimento vigile dello spettatore per essere decodificate e riportate alla loro originaria unità. In queste serie l’artista invita l’osservatore ad immergersi nella sua pittura, offrendo differenti punti di vista: quello ravvicinato, come se si vedesse attraverso le lenti di un microscopio, oppure quello immersivo, come in Stigma, dove viene chiesto di entrarvi quasi fosse un labirinto nel quale perdersi e ritrovarsi. In Stigma non esistono più il davanti, il dietro o il di fianco, non c’è un punto di vista privilegiato rispetto ad un altro. In installazioni come questa si è invitati a sostare, a camminare e ad immergersi dentro al colore e alle forme. La visione che appare da esperienze come questa risulta frastagliata e rarefatta, come se le immagini apparissero da una fitta nebbia o le si guardasse attraverso il riflesso che hanno lasciato sullo specchio dell’acqua. L’acqua, la nebbia - termini che evoca per spiegare come la percezione delle sue opere non sia mai pienamente definibile - sono parole che rimandano alla sua terra d’origine e offrono spunti interpretativi per il proprio lavoro intriso di trasparenze e sovrapposizioni. La Ferro, infatti, non ha bisogno di evasioni: i soggetti che sceglie appartengono all’ambiente dove è nata e cresciuta e ad esso è debitrice perché ha inciso profondamente sul proprio modo di guardare la realtà e dunque sul suo fare arte.
In serie come Resilienza e Frammenti o in Somnus Plantarum, raffinato libro d’artista, la visione si fa volutamente silenziosa e la fitta rete di segni, di graffi e di linee cede il passo ad una scrittura più rarefatta dagli esiti quanto mai pittorici. In queste opere, dove è la natura stessa la matrice che accoglie il colore, l’imprevedibile - o l’errore per usare una espressione a lei cara - è consapevolmente accolto come parte integrante facendo emergere, se mai ce ne fosse stato bisogno, la sua bravura tecnica. Lo spunto per queste carte è ancora una volta offerto dal quotidiano, in questo caso dalla potatura dei rami e dal fascino per la forma delle foglie. In queste serie il colore rosso, così ricorrente nella sua pittura e così denso di significati simbolici, si manifesta in tutta la sua forza dirompente attraverso delle impronte che paiono pennellate. Dalla potatura delle piante - un gesto che potrebbe sembrare violento e legato all’idea di caducità e di morte, mentre in realtà è premessa e possibilità di crescita - l’artista prende spunto per una riflessione lucida e serena sul vivere che ruota attorno al concetto di resilienza e che vede nella rinuncia ad una parte di sé una possibilità di rinascita.
La passione di Jessica Ferro per la carta emerge in tutta la sua ricerca, dai quadri più grandi a quelli più piccoli, ma certamente trova la sua affermazione più sincera nei libri d’artista. Somiglianze #1 e Somiglianze #2 presentano un compendio del suo lessico simbolico, dagli insetti ai cuori anatomici, e lo stesso accade in Things of Nature, composto da trentadue carte sciolte - appunti immaginifici verrebbe da definirli -, che paiono in attesa di essere raccolte in un’unica legatura.
[1] M. Yourcenar, Scritto in un giardino, Il melangolo 2004, p. 9.
Nella sua ricerca, da tempo, si lascia stupire dalle inesauste forme della natura accogliendole con sguardo attento e appassionato per trasformarle in marchi, in matrici preziose dal fascino antico. Attraverso la tecnica della xilografia si appropria dei segni del mondo naturale - siano essi quelli di insetti, di conchiglie o di piante - incidendoli sulle matrici e riproducendoli in modo sorprendentemente sempre nuovo su stoffe o su carte. Se il metodo della stampa, infatti, è azione seriale, per la Ferro esso si carica di una dimensione nuova che lascia spazio all’imprevedibile per realizzare lavori tutti diversi. Introducendo la possibilità dell’errore durante il processo di stampa - dove con il termine errore intende la libertà di trasgredire le regole e di accogliere l’imprevisto all’interno del suo gesto artistico - ogni volta si hanno immagini intenzionalmente differenti. La produzione di un’opera, infatti, se da un lato è azione minuziosa ed equilibrata - la realizzazione di una matrice richiede un’abilità che non ammette distrazioni di sorta dove il pieno e il vuoto vanno calibrati con chirurgico rigore - dall’altro si nutre di una attenta e ponderata casualità nella quale il colore, la pressione della matrice e il supporto stesso, siano essi la carta o la stoffa, introducono elementi di costante novità che orientano la sua ricerca verso una dimensione più legata all’arte pittorica che a quella incisoria.
Attraverso le sue creazioni assapora lo scorrere del tempo, innanzitutto quello dedicato alla realizzazione della matrice - da lei definito una sorta di rituale - e di tutti quei tempi ad esso successivi interessati dall’inesauribile processo di stampa. In questo delicato passaggio dalla matrice alla stampa l’artista interviene sulle forme segmentando e in qualche modo distruggendo i lembi dell’immagine in favore di una visione meno accademica e maggiormente espressiva. Attraverso questa frammentazione delle figure - non c’è lavoro, escluse le matrici, che non risenta di questo processo - rende tanto irriconoscibili quanto enigmatiche le forme, disorientando lo spettatore e invitandolo a soffermarsi su quegli aspetti che, nella realtà, mai avrebbe considerato.
In Stigma, Differenziazioni dell’essere, Metamorphosis, Insectum, tutto questo appare evidente. In queste serie la Ferro ingigantisce le forme degli insetti, siano essi un’ape, una cicala o una sfinge testa di morto, fino a trasfigurarli in un fitto intrico di segni. In questo costante esercizio di dilatazione e sezionatura delle immagini, alla pari di un entomologo, indaga l’essenza più profonda degli insetti per restituirne forme tanto inedite quanto inaspettate, ambigue, eccessivamente fuori scala, pure irriconoscibili, che chiedono il coinvolgimento vigile dello spettatore per essere decodificate e riportate alla loro originaria unità. In queste serie l’artista invita l’osservatore ad immergersi nella sua pittura, offrendo differenti punti di vista: quello ravvicinato, come se si vedesse attraverso le lenti di un microscopio, oppure quello immersivo, come in Stigma, dove viene chiesto di entrarvi quasi fosse un labirinto nel quale perdersi e ritrovarsi. In Stigma non esistono più il davanti, il dietro o il di fianco, non c’è un punto di vista privilegiato rispetto ad un altro. In installazioni come questa si è invitati a sostare, a camminare e ad immergersi dentro al colore e alle forme. La visione che appare da esperienze come questa risulta frastagliata e rarefatta, come se le immagini apparissero da una fitta nebbia o le si guardasse attraverso il riflesso che hanno lasciato sullo specchio dell’acqua. L’acqua, la nebbia - termini che evoca per spiegare come la percezione delle sue opere non sia mai pienamente definibile - sono parole che rimandano alla sua terra d’origine e offrono spunti interpretativi per il proprio lavoro intriso di trasparenze e sovrapposizioni. La Ferro, infatti, non ha bisogno di evasioni: i soggetti che sceglie appartengono all’ambiente dove è nata e cresciuta e ad esso è debitrice perché ha inciso profondamente sul proprio modo di guardare la realtà e dunque sul suo fare arte.
In serie come Resilienza e Frammenti o in Somnus Plantarum, raffinato libro d’artista, la visione si fa volutamente silenziosa e la fitta rete di segni, di graffi e di linee cede il passo ad una scrittura più rarefatta dagli esiti quanto mai pittorici. In queste opere, dove è la natura stessa la matrice che accoglie il colore, l’imprevedibile - o l’errore per usare una espressione a lei cara - è consapevolmente accolto come parte integrante facendo emergere, se mai ce ne fosse stato bisogno, la sua bravura tecnica. Lo spunto per queste carte è ancora una volta offerto dal quotidiano, in questo caso dalla potatura dei rami e dal fascino per la forma delle foglie. In queste serie il colore rosso, così ricorrente nella sua pittura e così denso di significati simbolici, si manifesta in tutta la sua forza dirompente attraverso delle impronte che paiono pennellate. Dalla potatura delle piante - un gesto che potrebbe sembrare violento e legato all’idea di caducità e di morte, mentre in realtà è premessa e possibilità di crescita - l’artista prende spunto per una riflessione lucida e serena sul vivere che ruota attorno al concetto di resilienza e che vede nella rinuncia ad una parte di sé una possibilità di rinascita.
La passione di Jessica Ferro per la carta emerge in tutta la sua ricerca, dai quadri più grandi a quelli più piccoli, ma certamente trova la sua affermazione più sincera nei libri d’artista. Somiglianze #1 e Somiglianze #2 presentano un compendio del suo lessico simbolico, dagli insetti ai cuori anatomici, e lo stesso accade in Things of Nature, composto da trentadue carte sciolte - appunti immaginifici verrebbe da definirli -, che paiono in attesa di essere raccolte in un’unica legatura.
[1] M. Yourcenar, Scritto in un giardino, Il melangolo 2004, p. 9.